E' consigliato parlare con gli sconosciuti ...

E' consigliato parlare con gli sconosciuti ...

domenica 15 novembre 2015

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Sto cercando di dare una collocazione al senso di fastidio - chiamiamola pure rabbia - che da un paio di giorni a questa parte staziona all'altezza del mio stomaco.

La mia verità, quella che ho scoperto essere vera per me, è che provo dolore e commozione nel vedere il volto di una giovane donna italiana che ha perso la vita in maniera assurda, insensata, una ragazza a me sconosciuta, ma probabilmente vicina per età, gusti e desiderio di condividere una serata piacevole con gli amici. L'immagine di un volto trasmesso su tutti i media nazionali, senza alcuna delicatezza nei confronti di chi, quel volto, l'ha conosciuto e amato sul serio. Un volto tra centinaia. But the show must go on, baby. 

Ho poi scoperto un'altra verità - vera per me, ancora una volta: che i morti non sono tutti uguali, non hanno il medesimo peso. Quelli dell'attentato dello Stato Islamico a Beirut sono passati quasi inosservati, come oscurati dai tragici eventi di Parigi, avvenuti nella serata dello stesso giorno. O ancora, le vittime di Ankara dello scorso 10 ottobre. E così via, l'elenco potrebbe essere tristemente ancor più lungo.
Non si tratta semplicemente della vicinanza geografico-culturale, e dei processi di identificazione che scattano nei confronti delle vittime, viste come più o meno simili a noi per gusti, valori, stile di vita, abitudini (motivo per cui gli attentati al Museo del Bardo e della spiaggia di Tunisi, che hanno coinvolto turisti, hanno comprensibilmente suscitato paura, rabbia e sgomento in tutto il mondo).

C'è di mezzo, altresì, una percezione etnocentrica, che rende ragione dell'anestesia emotiva con la quale ci difendiamo da anni dalle notizie sulle guerre in Africa, Asia, Medio Oriente, scenari di morte e distruzione per antonomasia. Chissà poi se, al di là del dato di realtà, le persone si abituino mai davvero alla guerra, o se sia piuttosto un pregiudizio-scorciatoia della nostra cultura. Ennesimo attacco kamikaze in Palestina o in Israele, ennesimo cassetto che si apre, chiusura di sicurezza nella nostra memoria (nel caso in cui arrivi alla nostra attenzione ...).

Eventi sanguinosi come quello che è stato battezzato l'11 settembre di Parigi, così come l'attacco dello scorso gennaio alla redazione di Charlie Hebdo, ci fanno sentire più uniti, coalizzati contro un nemico. E' molto rassicurante. Ma è anche degno di nota che per sentirci vicini ai nostri simili, ai nostri amici, per ricordarci dei legami che sempre ci uniscono, nel bene e nel male, siano necessari fatti così tragici ed eclatanti. Perché dobbiamo arrivare a sentirci a tal punto minacciati per ricordarci l'ovvietà di quanto sia bello stare insieme, condividere una serata con i propri cari, il piacere del calore umano e del sentirsi tutti sulla medesima lunghezza d'onda? 

Altro che solidarietà, se i meccanismi di potere ci orientano persino nel 'com-patire', nel soffrire insieme/soffrire con, portandoci quasi ad una suddivisione dell'umanità in categorie: più o meno lontana, più o meno simile a noi, più o meno esistente ai nostri occhi, a seconda della percezione suscitata dall'interesse e della rilevanza date dai media. 
E' un processo ampiamente studiato dalla sociologia, dalla psicologia sociale, dall'antropologia, già noto e assai comprensibile, umano oserei dire. Che tuttavia mi genera profonda rabbia, oltre che un senso di solitudine: come se mi trovassi in una scomoda minoranza, che forse non tollera più di tanto la macerazione emozionale, e che - nei postumi immediati di un caos ribollente di paura, stupore attonito, incertezza e retorica - risulta come una voce fuori dal coro, additata a idealista o, ancor peggio, giustificazionista. O con noi o contro di noi, e via di escalation in escalation.

Sento nel mio cuore che davvero, forse, c'è speranza per un mondo più giusto, equo, libero, democratico. Ma soltanto quando anche la pietà, la compassione, il dolore, l'indignazione, la vergogna, non avranno distinzioni di colore, bandiera e latitudine. Quando impareremo a soffrire anche per coloro i quali non possono essere più distanti e diversi da noi, a indignarci allo stesso modo. 

Per compiere un simile salto è a mio parere necessario un cambiamento radicale di pensiero, una disponibilità a non lasciarsi coinvolgere in facili retoriche e un'apertura bisognosa al confronto, che non è solo una bella parola di moda ma incarna una necessità - altrettanto umana - che parte dalla consapevolezza della nostra parzialità, incompletezza e arroganza.

3 commenti:

  1. Condivido questi tuoi pensieri.
    A parte la prostrazione per gli eventi, in questi giorni c'è anche una cosa che mi infastidisce: vedere i profili di persone (abituate a scrivere stronzate, a non leggere e documentarsi mai su niente) cambiare all'improvviso, con candele, lacrime e tutte le retoriche del caso. Accompagnate ovviamente dalle solite sentenze da bar...salvo poi domani tornare ad occuparsi di barzellette, cuccioli di animali e video demenziali.

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  2. Ciao Lucien. Già, hai centrato un altro aspetto ...

    Un abbraccio

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  3. http://www.internazionale.it/opinione/pierre-haski/2015/11/16/parigi-beirut-attentati-reazioni

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